domenica 8 maggio 2011

.. Rinascere.



Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita.

Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta.

Che uno dice: è finita. No, finita mai, per una donna.

Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole.

Non parlo solo dei dolori immensi, di quelle ferite da mina anti-uomo che ti da la morte o la malattia.

Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai giocando l'esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola.

Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderà deciderai se sei all'altezza o se ti devi condannare.

Così ogni giorno, e questo noviziato non finisce mai. E sei tu che lo fai durare.

Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci, con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l'aria, che non flirti con nessuno perché hai il terrore che qualcuno s'infiltri nella tua vita.

Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane.

Sei stanca: c'è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare, che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.

Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa. Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre: "Io sto bene così. Sto bene così, sto meglio così".

E il cielo si abbassa di un altro palmo. Oppure con quel ragazzo che ami alla follia.

In quell'uomo ci hai buttato dentro l'anima; ed è passato tanto tempo, ce ne hai buttata talmente tanta di anima, che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata.

Comunque sia andata, ora sei qui e so che c'è stato un momento che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento.

Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo lavoro, nella tua solitudine.

Ed è stata crisi. E hai pianto. Dio quanto piangete!

Avete una sorgente d'acqua nello stomaco. Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro, sul motorino.

Così, improvvisamente. Non potevi trattenerlo. E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore, perché l'aria buia ti asciugasse le guance? E poi hai scavato, hai parlato. Quanto parlate, ragazze!

Lacrime e parole. Per capire, per tirare fuori una radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore. "Perché faccio così? Com'è che ripeto sempre lo stesso schema? Sono forse pazza?" Se lo sono chiesto tutte.

E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due, a quattro mani, e saltano fuori migliaia di tasselli.

Un puzzle inestricabile. Ecco, è qui che inizia tutto. Non lo sapevi?

E' da quel grande fegato che ti ci vuole per guardarti così, scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai. Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti.

Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma per la tua nuova te.

Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti a te stessa.

Non puoi più essere quella di prima. Prima della ruspa.

Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.

Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta, è come un diesel.

Parte piano, bisogna insistere. Ma quando va, va in corsa.

E' un'avventura, ricostruire se stesse. La più grande.

Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore delle tende o dal taglio di capelli.

Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo meraviglioso modo di gridare al mondo "sono nuova" con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo.

Perché tutti devono capire e vedere: "Attenti: il cantiere è aperto.

Stiamo lavorando anche per voi. Ma soprattutto per noi stesse".

Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia.

Per chi la incontra e per se stessa.

È la primavera a novembre. Quando meno te l'aspetti.

Jack Folla - da una trasmissione di Jack Folla





Ho sempre amato questo brano. Trovo che sia adattissimo per descrivere anche ciò che accade a quelle mamme che, come è successo a me, la normalità sono costrette a tenerla in stand-by per un po': qualche mese, qualche settimana se sono fortunate.

Perchè, diciamo la verità, va bene la gioia, ma non è che quando esci finalmente dall'ospedale riesci a scrollarti via dalle spalle tutto quanto. Me ne rendo conto, paradossalmente, soltanto adesso, a due anni di distanza, quando finalmente riprendo in mano le redini di tutto quanto. Mi rendo conto che, nei due anni trascorsi, malgrado sentissi finalmente di aver superato tutto quanto c'era sempre un qualcosa che mi teneva in sospeso, come incatenata; poi ho capito. Ho capito che, semplicemente, io non sono più la stessa che ero tre anni fa, quando ammiravo sognante le ecografie e ricamavo bavaglini a punto croce. E come potrei esserlo? Ero ingenuamente felice, fiduciosa, ignara.

E adesso? Adesso è diverso, sono CONSAPEVOLMENTE felice, sono più matura - vuoi perchè sono passata da "figlia" a "mamma", vuoi perchè ho conosciuto un inferno che non auguro a nessuno - sono soprattutto decisa a chiudere finalmente quella porta dietro alle mie spalle; e per farlo, mi sono resa conto che bisognava cominciare dalle piccole cose: un nuovo lavoro, una nuova casa, un po' di "potature" tra gli amici, qualche piccolo sogno da tirare fuori dal cassetto, spolverare e finalmente, con un pizzico di coraggio, lasciar volare via. Piccoli progetti che si stanno concretizzando in questi giorni e che mi hanno fatto capire una semplice verità: quello che è stato mi ha cambiata. Fino ad ora avevo cercato di "tornare" alla normalità, malgrado certe immagini che non volevano saperne di andarsene dalla mia testa e mi costringevano a tornare indietro a quei giorni, quando mi mancava l'aria. Invece, ecco l'uovo di Colombo: non è indietro che dovevo guardare, ma avanti. Non "tornare" alla normalità, perchè quella normalità di un tempo non esiste più, ma "agguantare" una nuova normalità, una nuova vita nella quale l'esperienza passata non è un handicap - emotivamente parlando - ma una nuova forza. Smetterla di rimpiangere l'ingenuità di un tempo, accettare la nuova me stessa - la me stessa consapevole che il cuore di mio figlio è stato tagliato, rappezzato e ricucito - e guardare avanti senza paura dei ricordi.
In una parola, "rinascere".

Perciò , per la festa della mamma, voglio dedicare questo brano a tutte le mamme "speciali", quelle che lottano, quelle che aspettano fuori dalla sala operatoria, quelle che temono di non riuscire a lasciarsi alle spalle tutto il peggio.. Siate fiduciose, e guardate sempre avanti.

mercoledì 27 aprile 2011

A PROPOSITO DI ALLOGGI: la bella iniziativa di una mamma

Sarà un pensiero banale, ma chi come me ha attraversato l'esperienza di un Ospedale Pediatrico sa bene che è comunque una grande verità - banale, sì, ma come forse solo le grandi verità sanno essere. E' dal dolore, più che dalla gioia, che spesso sbocciano i fiori più belli.
Quando si è in pace con il mondo e con sè stessi, quando si può essere serenamente supeficiali, quando si ha la sensazione di avere davanti a sè un orizzonte liscio come l'olio è difficile rendersi conto di quanto invece si possa fare per aiutare chi ha bisogno.

Oggi approfitto di questo mio spazio per divulgare, nel mio piccolo, la bellissima iniziativa di una mamma. Una mamma come tante, con tre splendidi figli dei quali però il secondogenito ha dovuto fare i conti, nei dieci anni della sua esistenza, con una malformazione cardiaca che ha richiesto due interventi chirurgici. E' già straordinario vedere come un bambino di quell'età sia in grado di affrontare con maturità e forza d'animo una prova che farebbe tremare le ginocchia a fior fiori di "omaccioni" (perchè alzi la mano chi non avrebbe il sangue gelato nelle vene, sentendosi un compito medico avvolto nel suo bel camice bianco "il tuo cuore ha qualcosa che non va... ,dobbiamo segare, tagliare, riappiccicare, ricucire e speriamo che tutto vada bene."). Sappiamo bene quanto i bambini avrebbero da insegnarci, se solo avessimo voglia di ascoltarli.
E la mamma? La mamma naturalmente crolla nell'angoscia dell'impotenza, teme, spera, aspetta. E quando finalmente tutto quanto si appresta a diventare un lontano ricordo, come tutte noi, non dimentica.
Credo di capire perfettamente quello che è successo; è capitata la stessa cosa a me, e probabilmente a migliaia di altre mamme. Al culmine della gioia, torni alla tua quotidianità sperando di lasciarti finalmente tutto alle spalle, ma ben presto ti accorgi che non è possibile. E' come se qualcosa ti fosse rimasto dentro, qualcosa di piccolo e duro, come un seme, che lentamente nell'ombra comincia a germogliare. "Devo fare qualcosa", ti dici "qualsiasi cosa."
Qualcosa di molto piccolo, come un blog.
Oppure, nel suo caso, qualcosa di più grande, come mettere a disposizione una casa - comprata appositamente per questo "progetto", come lo chiama lei - di quei genitori che dovessero avere la necessità di un alloggio in prossimità dell'Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma.
Diceva Madre Teresa: "in questa vita non possiamo fare grandi cose. Possiamo solo fare piccole cose con grande amore." Ed è perciò molto, molto volentieri che segnalo in questo post la splendida iniziativa di Angela (quando si dice, il destino nel nome...).

Queste, tanto per cominciare, le informazioni pratiche sulla casa:

"L'appartamento è sito in zona portuense altezza incrocio con bivio via del Trullo. E' vicinissimo al capolinea dell' 870 (linea che collega portuense all'ospedale) e questo è un dettaglio non trascurabile. E' un appartamento carinissimo ristrutturato di circa 80 mq composto da salottino a vista con divano e tv, cucina arredata, lavatrice, frigo, termoautonomo, bagno, due ampie camere, ripostiglio e terrazzo con lavabo esterno. L'appartamento è ubicato sopra tutti i negozi nonchè ad un mercato rionale ma è molto silenzioso, assolato, ed è posto al piano terzo di una palazzina di quattro, con ascensore."

La disponibilità sarà a partire dal primo maggio, giusto il tempo per il disbrigo delle pratiche burocratiche e per la sistemazione dell'alloggio.

Per informazioni, potete rivolgervi al Negozietto ( il negozio tenuto dalle volontarie dell'OPBG, lo trovate poco dopo l'ingresso all'ospedale dal lato di Piazza Sant'Onofrio), nello specifico alla signora Daniela.

mercoledì 20 aprile 2011

QUELLO CHE SCRISSI ALLORA

Non so perchè l'ho fatto. L'avevo lasciato lì, in un angolo dell'armadio, senza avere più il coraggio nemmeno di prenderlo tra le mani, tutto questo tempo. Mi costava troppo dolore il pensiero anche solo di sfiorare con lo sguardo quelle pagine, riempite con tanta gioia durante i nove mesi di attesa.
Parlo - forse si è capito - del diario della mia gravidanza, quel quadernone ad anelli con la copertina stampata a coccinelle nel quale ho minuziosamente annotato il fluire dei pensieri e delle emozioni, durante i lunghi mesi in cui, lentamente, come una farfalla nel suo bozzolo, mi sono trasformata in una mamma.
Non sapevo ancora quello che avrei dovuto affrontare, sebbene i primi mesi di gravidanza non fossero andati perfettamente lisci (tra minacce d'aborto e una tribolata esperienza con TN e bitest) ero fiduciosa che il peggio fosse ormai alle spalle, che tutto sarebbe andato finalmente per il verso giusto. Solo dieci giorni prima del lieto evento, concludevo dicendo "Ma penso a te, che tra poco arriverai, e mi sento serena."
Poi, un buco lungo quasi venti giorni, un buco del quale conosco perfettamente il senso e il significato. Erano i giorni della confusione, dell'angoscia, del terrore di perdere il terreno sotto i piedi. Anche solo il pensiero di prendere in mano la penna mi sembrava impossibile. D'altronde, come poter mettere nero su bianco una realtà così irreale? Dopo pagine e pagine di emozioni, di carezze scambiate attraverso la pelle tesa del pancione, di piccole paure, come poter parlare di argomenti tanto spigolosi come un'operazione a sterno aperto, un Ospedale Pediatrico, un Reparto di Terapia intensiva Cardiochirugica?
Eppure, a dieci giorni dal parto, quel coraggio l'ho finalmente trovato. Ricordo come fosse oggi quel sabato pomeriggio in cui, in una pausa prima di rientrare in ospedale, seduta al tavolo della sala hobby di casa dei miei ho riempito quelle tre pagine e mezza, con gli occhi inondati di lacrime.
L'ho fatto perchè la mia idea era sempre stata quella, un giorno, di regalare a mio figlio quel diario, affinchè sapesse tutto l'amore che c'è stato dietro. Perchè so che ci saranno momenti bui, quando lui sarà un adolescente tutto ormoni e io la vecchia palla al piede, con le sue regole e i suoi orari; ma voglio che in quei momenti lui non perda mai di vista quello che significa DAVVERO essere mamma. Per questo, in quei mesi, riempivo pagine su pagine, per non perdere neanche una di quelle sensazioni che, a distanza di tempo, avrebbero potuto aiutare mio figlio a capirmi.
E poichè, nella nostra storia, il suo intervento è parte integrante di quelle emozioni, alla fine mi sono fatta forza e ho concluso quel diario nell'unico modo possibile, lasciando andare tutta la paura.
Non ho più avuto il coraggio di leggere quelle pagine; fino ad ora, per questo blog, mi sono sempre affidata al ricordo di quei giorni, alla rievocazione di quelle sensazioni mai sopite. Credo però che sia venuto il momento di lasciare spazio all'unica testimonianza davvero "viva" di quel lunghissimo mese. Nulla di originale, immagino, rispetto a ciò che provano le migliaia di mamme (tremilacinquecento bambini all'anno nascerebbero affetti da cardiopatie congenite) che portano nell'animo cicatrici simili alle mie.
Nel momento in cui scrivevo, mio figlio aveva appena compiuto dieci giorni di vita ed eravamo in attesa dell'intervento di switch arterioso. Stento perfino a riconoscere il mio stile, tanto l'angoscia mi gelava la mente e la penna.

".. Mi sento confusa e disorientata, il mio corpo fatica ad adattarsi. Mi sembra di essermi sognata tutto, fino a pochi giorni fa avevo un pancione enorme e ti sentivo muovere lì dentro, poi all'improvviso le tanto attese contrazioni, il pronto soccorso, la sala travaglio, l'attesa, la tua nascita - il momento più straordinario di tutta la mia vita; e poi come una pallina su un piano inclinato, gli eventi che si susseguono imprevisti, tu che vieni portato via in incubatrice, mi passi davanti nel corridoio e sei bellissimo, dormi con addosso solamente il pannolino e io sono lì in piedi che devo rimanere una notte almeno in ospedale per poter essere dimessa.
Ho pianto per giorni, mi sentivo come se mi fosse stata amputata una parte del corpo, ancora adesso ripenso alla notte in cui ho partorito ed ho un ricordo talmente dolce di quei momenti... ;mi sarebbe piaciuto godermelli di più, trascorrere con tutte le mamme i tre giorni di degenza iniziando a "familiarizzare"con il mio bambino ma la vita ha deciso diversamente, rimanderemo tutto a quando sarai con noi a casa...."

"...E' vero che i cardiologi dicono che è un intervento quasi di routine, ma sei così piccolo e indifeso, mi vengono le lacrime agli occhi anche solo quando la sera ti lascio nella tua culletta.. se penso a quando sarai lì, tutto solo, in camera operatoria mi viene da piangere.
E' come essere ancora incinta, in attesa che tu nasca di nuovo. Mi sto perdendo il tuo primo mese, ho visto che hai già perso il cordone ombelicale, e pensare che mi spaventava tanto l'idea di medicartelo... Ma la cosa più importante è che tu stia bene, che l'operazione vada bene e che possiamo finalmente portarti con noi a casa, nella tua cameretta di "Cars" che il tuo papà ha preparato con tanto amore. Sei tu che mi dai la forza di affrontare ogni cosa, con i tuoi occhietti che mi fissano e le tue manine che mi stringono le dita, sei così sereno e fiducioso nella vita che non posso non esserlo anche io. Continuo a pregare e spero che questo momento passi in fretta."

Questi, i miei pensieri di allora. Qui si interrompe il diario, a parte un pieghevole dell'Unità Operativa di Cardiochirurgia con le informazioni per la dimissione e i numeri da chiamare in caso di necessità. Non si è interrotta, fortunatamente, la nostra storia.

giovedì 10 marzo 2011

QUEL LUNGO GIORNO DI ATTESA....

Scorrendo a ritroso il blog, mi pare di non aver mai descritto dettagliatamente il giorno dell'intervento vero e proprio; a dire il vero nella mia mente è tutto molto sfocato e confuso, probabilmente perchè in quelle lunghissime ore la mia mente era tutt'altro che lucida e ricettiva verso ciò che avevo intorno.
Eppure, immagino che per una mamma ed un papà possa essere utile sapere COSA accade, il giorno in cui tutta la tua vita resta sospesa - per undici, dodici ore - come se qualcuno avesse premuto il tasto "pause".

Com'è facile immaginare, il momento più duro è quello in cui bisogna accompagnare il proprio bimbo fino alla sala operatoria; ricordo di essermi alzata quella mattina con una sensazione a metà tra lo sconforto per ciò che stava per accadere ed il sollievo; sollievo perchè, finalmente, il giorno tanto atteso era arrivato, il giorno che avrebbe fatto da "spartiacque" incamminandoci lentamente verso le dimissioni. Sconforto, facile immaginarlo, perchè le dimissioni ci sarebbero state solo nell'eventualità che tutto fosse andato liscio; è vero, avevamo la statistica a nostro favore, ma come ho detto in un post precedente i meri dati statistici non sono di gran conforto, quando pensi che quel 5% di "sfortunati" potrebbe comunque includere anche te.

Come ogni mattina siamo arrivati al reparto di Patologia Neonatale, ed abbiamo aspettato; l'orario in cui ci avevano dato appuntamento era precedente al normale orario di entrata dei genitori in reparto, perciò nella piccola saletta d'attesa (un brandello di corridoio, una parete occupata dagli armadietti di metallo, un tavolo con copriscarpe e camici di plastica, un citofono) c'erano solo pochi genitori.
Molte volte, nei giorni precedenti, mi ero trovata io nella situazione speculare; seduta sulla sedia di plastica, in attesa di un orario di entrata che pareva non arrivare mai, sapendo che oltre la parete alle mie spalle qualcun'altro (con amore e competenza, per carità, ma pur sempre qualcun altro) stava facendo il bagnetto al mio bambino. In piedi, un padre e una madre col viso segnato, che forzando un sorriso ti raccontano che per loro è arrivato "il giorno".
Qualche parola di circostanza "in bocca al lupo", "anche a voi"; la porta del reparto si apre e finalmente appare l'infermiera che ci chiama. Non dimenticherò mai quel momento, quando oltrepassando la porta abbiamo visto nostro figlio nella sua culletta a rotelle, in corridoio, tranquillo ed ignaro di tutto nel suo pigiamino con il bollino dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
Il tragitto è stato interminabile ed avvolto in un silenzio irreale; ricordo che seguivamo i passi veloci dell'infermiera attraverso corridoi ed ascensori, talvolta passando in mezzo ad altri pazienti, a volte imboccando i passaggi strettamente riservati al personale. Qualche sguardo di chi ci incrociava lasciava intendere che immaginavano perfettamente dove fossimo diretti. Immagino che, per chi lavora in ospedale pediatrico, lo sguardo smarrito di un genitore che accompagna il proprio bambino nella camera operatoria sia inconfondibile.
Non ricordo a cosa pensavo; ricordo che mi muovevo come un automa, quasi incerta che quella situazione così irreale - i corridoi sotterranei spogli, percorsi solo da infermieri in camice bianco o verde, indaffarati a trasportare portaprovette o spesse cartelline - stesse accadendo veramente, e stesse accadendo a me.
Dopo un ultima salita in ascensore arriviamo in un piccolo atrio, dove troviamo riunito un piccolo manipolo di medici ed infermieri. Lì per lì la mia mente ha faticato non poco per capire che il momento era arrivato; il momento in cui l'infermiera, con tutta la delicatezza possibile ci comunica che dobbiamo salutare il nostro bambino, ed affidarlo a loro.
Cosa ho detto, quando mi sono chinata sulla culletta? Non ne ho idea, così come non ricordo se in quel momento piangessi o meno. Ricordo solo i suoi occhi aperti, e la paura che quella potesse essere l'ultima volta che li vedevo.
Quando ci hanno accompagnato fuori dal reparto, nel corridoio dov'è la sala d'aspetto, ho avuto la sensazione che qualcosa dentro di me si spezzasse. La porta alle nostre spalle si è chiusa con uno scatto secco, quasi un colpo di fucile, lasciandoci in un corridoio attraversato da pazienti, medici, bambini, passeggini, inservienti con i carrelli per ricaricare le macchinette automatiche.
Da quel momento in poi, nella mia testa c'è come un buco temporale. Siamo entrati nella sala d'aspetto, una stanza rettangolare con tutto intorno dei divanetti rivestiti di una stoffa morbida, marrone scuro, e con un quadro della Madonna col Bambino in fondo; con noi c'erano i nostri genitori, ed altri papà e mamme in attesa. Con loro abbiamo scambiato pochissime parole, quel tanto che bastava per sapere che noi, lì dentro, eravamo quelli con l'attesa più lunga: dodici ore.
Dodici ore che ho trascorso immobile su quel divano, sforzandomi assieme a mio marito di non pensare, di immaginare che fossimo in attesa di tutt'altro; avevamo con noi una Settimana Enigmistica (che non ho avuto più il coraggio nè di buttare nè di riaprire per molti mesi, anche dopo il rientro a casa), un Vanity Fair e qualche altra rivista che si perde però nella memoria (forse Geo?). Difficile cercare di affogare l'angoscia con un cruciverba o un po' di gossip. Non controllavo l'ora, non alzavo lo sguardo verso la porta della Sala Operatoria, non passeggiavo nei corridoi, la mia paura più grande era che qualcuno, prima del tempo, venisse per annunciarmi che era sopraggiunto un problema.
Mi limitavo a stare lì. Io e mio marito ci stringevamo l'uno all'altra come due pappagallini.

A pensarci, è straziante. In quel preciso istante in cui mi sforzavo di riempire le caselline del cruciverba a pochi metri da me qualcuno addormentava mio figlio, gli segava lo sterno, lo sollevava, incideva e sollevava le coronarie, staccava aorta e polmonare, le invertiva e ricuciva ciascuna al posto giusto, poi richiudeva tutto. Non so se qualcuno di voi riesce ad immaginare qualcosa di più orribile del corpicino di un neonato di 15 giorni che subisce tutto questo.
Ad ora di pranzo qualcuno ci ha costretto ad uscire per una boccata d'aria - c'era un sole irritante, insolente.. come poteva splendere il sole in una giornata tanto brutta? - e mangiare qualcosa. Siamo rimasti fuori il minimo indispensabile; mi sembra ormai di essere entrata in simbiosi con i divanetti marroni.
Tornati dentro, ricominciamo l'attesa. Nel corridoio non c'erano finestre, perciò il tempo scorreva lento sotto la luce giallastra dei neon; nessun indizio delle ore che si susseguivano.
Non sentivo la stanchezza, il fastidio di trascorrere tutte quelle ore seduta su un divanetto scomodo, la mancanza d'aria fresca e di luce naturale. Ero come imbambolata.
Intuimmo che si era fatto tardi quando ci ritrovammo in una saletta vuota, ed anche fuori nel corridoio non erano rimaste che poche persone immerse anche loro in una silenziosa attesa - avremmo imparato poi che erano genitori di piccoli pazienti in Terapia Intensiva, che attendevano la fine del nostro intervento ed il trasferimento di nostro figlio in TIC per poter finalmente entrare e visitare i loro bambini.
Quando infine un medico è scivolato fuori dalla porta ed ha chiesto di parlarci, ho temuto che le gambe non mi reggessero.
"E' tutto a posto" Parlava in un sussurro. E' strano avere davanti a sè una persona reduce da undici, dodici ore di intervento che trova ancora il tempo e la pazienza di rassicurarti con un sorriso.
Non siamo potuti entrare che per pochi minuti in Terapia Intensiva; mio marito all'inizio ha cercato di sconsigliarmi, per paura che mi impressionassi. Sapevo che avrebbero lasciato lo sterno aperto per almeno 36 ore dopo l'intervento - per verificare che emodinamicamente fosse tutto a posto -e immaginavo che sarebbe stata dura vedere il mio bambino in quelle condizioni.

Ma cos'altro avrei potuto scegliere? E' vero, adesso quell'immagine ce l'ho impressa a fuoco nella mente, ma allora tutto ciò che potevo fare era fargli sentire la mia voce. Una manciata di minuti davanti a quello che sembrava un bambolotto di cera, con un enorme cerotto a coprirgli il petto, sotto al quale su vedeva sollevarsi ed abbassare ritmicamente il cuore. Tubi ovunque, flebo, rubinetti. Un enorme macchinario alle sue spalle che sibila come un mostro addormentato, controllando l'infusione dei farmaci.

Mai come quella sera è stata dura uscire dall'ospedale e lasciarlo lì. Fuori cominciavano a brillare le stelle, l'aria profumava di primavera, e io continuavo ad immaginarlo lì, da solo, nudo nel silenzio della TIC assieme ad altri piccoli pazienti. E piangevo.

martedì 8 marzo 2011

LA BELLEZZA DEL PRESENTE

Tra pochi mesi sarà il secondo compleanno del mio piccolo eroe. E, come accade per tutti i piccoli cardiopatici, anche lui in realtà di compleanni ne ha due: quello anagrafico, quello che si festeggia con le candeline, la torta e i festoni colorati. Ed un secondo, celebrato intimamente tra noi tre, ricordando quel lungo, lungo giorno in cui abbiamo semplicemente ASPETTATO.

Mi rendo conto che la stragrande maggioranza dei post in questo blog riguardino il passato; non a caso, uno dei "tag" più ricorrenti è "a ritroso". il fatto è che in origine l'idea del blog era sì quella di condividere con altre mamme la mia storia, ma anche e soprattutto "buttare fuori" tutto ciò che s'era incrostato lì dentro, da qualche parte. Perchè in quelle lunghe settimane, a volte non c'era nemmeno il tempo per piangere.

Pensandoci adesso, però, pensando alle tante mamme che mi hanno contattato in questi mesi, mi rendo conto che sarebbe forse bello dare loro davvero un segno di speranza, raccontando loro quello che è il presente, la vita quotidiana con un bambino che, due anni fa, ha avuto un intervento di switch per una Trasposizione dei Grossi Vasi.

Ebbene, basti dire che a volte, mentre gli faccio il bagnetto, quasi quasi mi stupisco di vedere lì quella cicatrice. Non che abbia dimenticato, certo; le immagini e le sensazioni di quei giorni sono impresse a fuoco nella mia mente. Ma, sorprendentemente, è come le il mio cervello rifiutasse l'idea che questo bimbo che salta, gioca, ride arrampicandosi come una scimmietta sullo scivolo sia lo stesso che ho visto giacere inerme in un lettino d'ospedale, bianco come la cera.
A distanza di due anni, la bellezza è che tutti quei ricordi assumono quasi un contorno di irrealtà.

Se qualcuno mi chiedesse: come sta OGGI tuo figlio? Non hai paura che possa non avere una vita normale? Io rispondo "assolutamente bene." "Assolutamente no".
Sfiderei chiunque, in mezzo al parco giochi, ad additare lì in mezzo il piccolo "cardiopatico".

E, a volte, sotto sotto mi scappa un sorriso quando, al nido, un'altra mamma cerca la mia compiacenza lamentandosi della figlia o del figlio che ha sempre il moccio/il catarro/la tosse. Una parte di me vorrebbe dire "sì, anche a me terrorizzano i germi... Nella scala delle mie paure viene appena sotto quella che ho provato quando mi hanno detto che, a quindici giorni di vita, avrebbero divuto segargli lo sterno, tagliare aorta e polmonare, sollevare le coronarie, invertire quello che andava invertito e rimettere tutto a posto"... Ma la parte predominante di me sorride e basta. Perchè il bello, lo straordinario del mio presente è in fondo anche questo: poter finalmente tremare al pensiero di un raffreddore, un influenza, una diarrea.

venerdì 4 marzo 2011

UN CONSIGLIO AI GENITORI

C'è una frase che mi sento di riportare in questo blog, e che consiglio a tutti i genitori che si trovino a vivere un'esperienza simile alla nostra di ripetersi, ogni mattina, come un mantra.
E' una frase che ci disse, in uno dei primi giorni, uno splendido cardiochirurgo, giovane membro dell'equipe del prof. Amodeo:

"Ricordatevi che in Cardiologia si sta come in una gara automobilistica: ognuno guida la sua automobilina e deve guardare dritto avanti a sè, senza mai buttare un occhio alle altre".

In Cardiochirurgia c'è una sola, semplice regola: ogni bimbo è un caso a sè stante, ogni intervento è un caso a sè stante. I confronti sono dannosi, deleteri, inutili.
Perciò non guardate le storie degli altri, o meglio ascoltatele per attingervi speranza, positività, conforto, ma non soffermatevi mai a fare paragoni, mai guardare i tempi di ripresa degli altri bimbi, le complicanze post-operatorie, la durata dell'intervento.

Una semplice regola, dunque: correte sulla VOSTRA macchinina senza distogliere mai lo sguardo dal traguardo. Apprezzate i miglioramenti senza pensare che, però, il vicino di lettino ne ha mostrati di più. Preoccupatevi nei limiti, senza guardare il bimbo operato la settimana precedente che è ancora in Terapia Intensiva per un'infezione.
Siate solidali con gli altri, ma non lasciatevi mai andare alla tentazione dei paragoni; ogni storia è a sè.
Può sembrare egoistico, ma andando indietro con la mente è l'unica, piccola-grande verità per affrontare e sconfiggere un mese difficile.

mercoledì 2 marzo 2011

LE MAMME DELLA TIN

Voglio segnalare un bellissimo articolo pubblicato da UPPA (Un Pediatra per Amico, qui il link all'articolo intero) dedicato alle mamme della Terapia Intensiva Neonatale.
Con quelle del Bambin Gesù, per due settimane e oltre, ho condiviso la stanza dedicata ai tiralatte; nonostante la mia esperienza sia diversa ci sono tanti punti in comune con la delicatissima descrizione che ne viene fatta nell'articolo... troppi per non ritrovarmi, alla fine della lettura, con una lacrima impigliata nelle ciglia.
Anche noi con quella chiavetta, anche noi con il rituale quotidiano dello spoglio e vestizione (infilare nel microscopico armadietto una borsa degna di Mary Poppins, nella quale sono stipati tiralatte, libri, assorbenti e retine post parto, amuchina, bottiglietta d'acqua, portafogli, cellulare, fazzoletti e tutto ciò che può servire a darci conforto in una lunga, intera giornata trascorsa tra le mura dell'ospedale), il camice di carta, i sovrascarpe. Rivedo me stessa in quegli sguardi timorosi di chi, confuso, stordito, completamente disorientato da una realtà che sembra non appartenerci, si lascia guidare dalle mamme "anziane", quelle che già "sanno", essendo lì da tanti, troppi giorni uno uguale all'altro.

"Lo spogliarsi, il prepararsi, il tirarsi il latte," si legge nell'articolo "sono gesti che presto acquistano la valenza di una routine, che lasciano il tempo interiore per prepararsi ad un luogo dove si entra disarmati, completamente scoperti, dove il tempo trascorre lentamente, dove la realtà è fatta di cullette termiche, sensori acustici, bambini intubati e flebo infilate nella testa. Dopo qualche giorno il reparto diventa familiare, le altre mamme sono sempre pronte a dire una parola di rassicurazione, a farsi coraggio tra di loro, a sorridere, sembrano serene, a volte scherzano, ridono, parlano di cose normali; hanno bisogno di quella normalità che cercano tutte le mamme, hanno bisogno di parlare di passeggini, pannolini e fasciatoi per non pensare al resto. Ne hanno bisogno perché quando entrano nel reparto e si avvicinano alle cullette termiche in cui sono chiusi i loro bambini, la normalità sembra un sogno lontanissimo."

Dio, come è vero. Probabilmente l'ho scritto e riscritto mille volte, ma è così: entri lì dentro e la normalità appare come qualcosa di terribilmente effimero. E ci sono momenti in cui il tarlo del "forse la normalità non l'avrò mai" ti divora il cervello con fastidiosa tenacia. Eppure c'è una molla che ci spinge comunque a reagire, e ti ritrovi inconsapevolmente a scherzare e sorridere - perfino quando sei fuori dalla Terapia Intensiva Cardiochirurgica ed aspetti di vedere tuo figlio pallido come un morticino nella sua ragnatela di tubi.

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Quando escono dal reparto con quei microscopici fagotti nelle carrozzine hanno l`espressione di chi sta rubando qualcosa. Camminano con lo sguardo fisso dentro alla carrozzina poi lo alzano velocemente sulle altre mamme, quelle che rimangono, le salutano radiose e impacciate, baciano tutti, lasciano la TIN. La normalità non è più un sogno."

Storie diverse eppure così simili.. solo qualche giorno fa, parlando della permanenza nel reparto di Cardiologia Degenza, ricordavo questa stessa sensazione, quando uscendo con la navetta finalmente "piena" hai la sensazione di fare qualcosa di proibito, che qualcuno possa sul più bello fermarti e dirti "ehi, dove state andando.. quel bimbo non è vostro, non ancora"..
Eppure, come conclude l'articolo, un bel giorno
la normalità non è più un sogno. La normalità cui tanto aspiravi e che è stata dietro l'angolo ad aspettarti, finalmente la puoi abbracciare.
Quello è il momento in cui veramente ti rendi conto di quanto sia bella la felicità.

Ecco, per me, per le mamme della TIN, della TIC, della Patologia Neonatale, per tutte le mamme costrette a posticipare di settimane - a volte mesi - la gioia di essere mamme, una canzone dolcissima di Elisa, che già precedentemente avevo postato. Ma che posso farci, per me è stata questa, la colonna sonora di quelle lunghe, lunghissime giornate: